miércoles, 9 de marzo de 2016

10 - [ITA]




Ancora una volta. Ancora una volta ero li, li davanti ad un pallone da calcio, ciò che è sempre stato la mia vita. Ancora una volta la sorte aveva voluto che fossi io a decidere una partita. Dai miei piedi passava la vittoria o la sconfitta, la gioia o la delusione, la speranza dei miei compagni di squadra e la maledizione dei miei avversari; ed ancora una volta indossavo la mia maglietta con il numero dieci sulla spalla.

Il numero dei grandi, il numero di Maradona, di Pelé, Zidane, Baggio, il numero dei fantasisti, e dei leader. Dei giocatori che tutti si aspettano che risolvano le partite, il numero che ti fa diventare un idolo, ma allo stesso tempo, il numero che più pesa indossarlo. 


Sin da quando ero bambino portavo questo numero, quando si giocava per strada con gli amici, ed il calcio era solamente un gioco. Ricordo ancora che avevo una maglietta bianca, del Real Madrid, regalo del nonno per il mio compleanno. Mi sentivo libero correndo dietro ad un pallone, e tutti mi dicevano che ero il più bravo.
Al tempo non c’era nessuna pressione, non c’era la tv con i giornalisti, non c’erano i tifosi, c’era solo un campo di asfalto, e la sola preoccupazione era che il pallone non si bloccasse sotto una marmitta, o fermarci quando passavano le macchine.



Ricordo quando i miei genitori mi iscrissero alla scuola calcio. Ero felice perché per me era come se mi avesse comprato una grande squadra, e finalmente avevo dei compagni ed un allenatore.
Il primo giorno mi accompagnò mio nonno, e ricordo che l’allenatore mi chiese in che ruolo volessi giocare. Non sapevo che rispondere, a me importava solo correre, e tirare calci ad un pallone. Per la strada ci sono solo i portieri ed i giocatori, così rispose mio nonno, che con tono orgoglioso disse:

“Questo è un dieci!”

Non avevo idea di che significasse, e una volta finito l’allenamento lo domandai a lui.

“Figlio mio, un dieci è colui che sa già cosa accadrà sul campo, e colui che crea il gioco, quello che fa segnare ai compagni i gol facili, perché segna lui quelli difficili. Non è né un attaccante, né un centrocampista, si muove nel limbo della creazione, perché è colui che trasforma un gioco volgare, dove si usano i piedi, in poesia. Un giorno ti porterò a veder giocare un dieci”.

La notte del 22 giugno 1986, mi trovavo con tutta la mia famiglia davanti alla tv, per vedere la partita dei mondiali del Messico; Argentina – Inghilterra. Questa partita si gioco pochi anni dopo la guerra fra i due paesi, e gli argentini avevano fame di vendetta. Ovviamente io ero solo un bambino, non mi importava nulla di questo, volevo vedere solamente una partita di calcio, e ciò che vidi fu davvero “tutto il calcio”.

La partita fu molto dura, e gli inglesi avevano paura di Maradona, nella seconda parte accadde quello che oggi tutti ricordano come “La mano de Dios”. Maradona, il numero dieci dell’Argentina segnò un gol con la mano, senza che quasi nessuno se ne rendesse conto, poi nell’esultare alzò al cielo quella stessa mano, quasi come una provocazione. Nel calcio, a meno che tu non sia portiere, toccare il pallone con la mano è un delitto capitale, qualcosa di imperdonabile. Per quella mano però non fu così, quella mano fu astuzia, genio, poesia, la mano di Dio. Anche perché dopo pochi minuti, quasi come chiedendo perdono, lo stesso numero dieci segnò il gol più bello di sempre.

Prese la palla a centro campo, percorrendolo interamente, e saltano ogni inglese che incontrò sulla sua strada, ed ultimo il portiere. In campo c’era solo lui, tutti gli altri sembravano comparse. Questo gol lo realizzò toccando undici volte la palla, undici come il numero dei giocatori che compongono una squadra.
Quella notte, fu la prima volta che vidi giocare un numero dieci. Da quel momento decisi che volevo essere come Maradona. Cominciai a sognare che un giorno, anche io avrei fatto qualcosa di indimenticabile, accarezzando il pallone, come se fossi un angelo.

Gli anni passarono, e cominciai a capire che il calcio cominciava ad essere per me qualcosa di più serio, e una sera di ottobre divenne il mio lavoro, quando giocai la mia prima partita di serie A. Non giocavo più per la strada, ma in uno stadio e la gente pagava per vedermi giocare. I primi anni lottai molto per ottenere una maglietta da titolare, poi cominciarono ad arrivare le prime partite con la nazionale. Giocai in tutte le under, fino ad essere titolare nella nazionale dei grandi. La gente mi chiamava, mi fermava per chiedermi un autografo, dicendomi di segnare o di vincere la prossima partita.



Tutto ciò non mi cambio la vita, ovviamente avevo molti soldi, fidanzate bellissime, però in campo rimaneva tutto uguale. Mi divertivo, però una notte quando sbagliai il rigore che impedì alla mia squadra di arrivare in finale, per me cambiò tutto.

Tutti furono comprensivi, aiutandomi e dicendomi che senza i miei gol, non saremmo mai arrivati così in alto. Però mi sentivo male, mi sentivo colpevole, tanto che dopo aver sbagliato nascosi la mia faccia sotto la maglietta, con il numero dieci.

Tutti questi ricordi mi giravano per la testa, quando mi trovai ancora li, per un altro rigore. Questi pensieri mi bloccavano le gambe, guardavo il portiere che mi sembrava un gigante, e la porta sempre più piccola. Vedevo i tifosi avversari che mi insultavano ed intimidivano, cercavo di decidere dove avrei tirato, e sentivo che il portiere mi leggeva nel pensiero.

Mi sentivo immobile, morto, in attesa del castigo e della sconfitta. Poi chiusi gli occhi, e mi ricordai di una vecchia canzone di De Gregori, che diceva:

“Nino non aver paura, ti tirare un calcio di rigore, non è da questi particolari che si giudica un giocatore, un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia”.

Questa canzone me la fece ascoltare mio nonno, qualche giorno prima di morire. Sapeva che stavo male quando sbagliai quel maledetto rigore. Lui era malato da molto tempo, però mi disse che vide tutta la partita, e che giocai benissimo, che ero ispirato, e che lui fu molto orgoglioso di me.

“Tu hai fatto tutto ciò che dovevi fare, trascinando la tua squadra, che già da tempo era troppo stanca, e senza le tue giocate la partita sarebbe già terminata da tempo. Vedi, non è un rigore quello che dà il valore di un giocatore, è il modo di giocare, e tu giocasti con genialità, eleganza e poesia, devi essere orgoglioso, e sappilo che io lo sono di te, sia come calciatore, sia come uomo”.

Queste fu il mio ultimo ricordo, poi apì gli occhi, e più tranquillamente fissai il portiere, e subito dopo ascoltai il fischio dell’arbitro, cominciai a correre. Ero leggero, come se il mio numero dieci fosse una coppia di ali di angelo. Mi fermai un istante e tirai mettendo la palla alla destra del portiere.

Quella notte, mio nonno mi vide giocare come un numero dieci! 

Estratto da "Leggende Metropolitane"

No hay comentarios:

Publicar un comentario